Ricordi di vita militare e di prigionia

RICORDI DI VITA MILITARE E DI PRIGIONIA

OTELLO SCHIAVON

“TEI”

  • EX INTERNATO MILITARE
  • CROCE AL MERITO DI GUERRA
  • VOLONTARIO DELLA LIBERTÀ

Nella seconda metà del 1941 sono stato chiamato dal distretto militare per i necessari controlli di idoneità fisica e sanitaria per il servizio militare di leva.

Dichiarato idoneo, mandato a casa in congedo provvisorio. Chiamato alle armi a fine gennaio 1942 e destinato Undicesimo Reggimento Genio di Udine.

Dopo il primo mese di vita di caserma ho iniziato il corso di marconista. Passati tre mesi, sono stato diplomato marconista con voto OTTIMO.

Nel mese di giugno del 1942 sono stato impegnato in esercitazioni in cuffia e mi sono state date alcune nozioni di elettricità.

Nel mese di luglio trasferito a Villa Vicentina, paesetto poco lontano da Cervignano del Friuli, in attesa della costituzione di un contingente con destinazione in zona di operazioni.

A novembre fui assegnato alla Settima Compagnia Cuneense Artiglieria Alpina, come aggregato nel paese di Bressanone (BZ); in attesa di partire per il fronte russo.

Eravamo dotati di un equipaggiamento di attività veramente buono, ogni tanto seguivo gli Alpini nelle loro esercitazioni in montagna.

Così passammo novembre e dicembre 1942, gennaio e febbraio 1943.

Nel mese di marzo fummo allertati per la partenza al fronte di guerra russo.

Una sera arrivò l’ordine: “domani si parte”.

Il domani passò in silenzio. Il giorno dopo, un contrordine.

L’esercito italiano sul fronte russo era in rotta e disastrosa ritirata. La compagnia Alpini fu trasferita, non so dove sia stata destinata. Io nel rientrare al mio Corpo di Villa Vicentina, sono stato fermato a Pavia, dove rimasi più giorni in una specie di cantina del castello dei Gonzaga; poco lontano scorreva il Ticino.

Poi tre giorni a casa, dove sono stato denudato completamente e pulito per liberarmi di pidocchi e piattole dei Gonzaga. Rientrato a Villa Vicentina vi rimasi alcuni giorni. Spedito a Bari dove rimasi una settimana.

Quindi da Otranto di notte, per paura dei sottomarini inglesi, partimmo a zig zag per Durazzo in Albania; destinato al Genio militare di Scutari. Due giorni più tardi mi portarono ad Alessio (Lezha in albanese), un paesetto sul mare a ridosso delle montagne, a metà strada tra Scutari e Tirana.

Cartina Albania

Fui alloggiato in una casa fortilizio, al comando di una stazione ricetrasmittente, con due commilitoni, per collegamenti con Scutari, Tirana, Bari, Roma.

Arriva l’8 settembre 1943! Mi trovavo in cuffia e ascolto il proclama di Badoglio:” i tedeschi sono diventati nostri nemici”.

Corro ad avvertire il Comandante della Compagnia, a cui noi tre eravamo aggregati.

Immediatamente il Comandante fece suonare l’adunata…….”presto, presto fate presto!!! Caricate tutto nei camion, si parte per Durazzo!” con la speranza che una nave ci porti in Italia.

Noi tre marconisti rimanemmo ad Alessio perché dipendevamo dal Genio di Scutari, così restammo soli aspettando ordini!

Scutari, Tirana, Bari, Roma non rispondevano! Ci sentivamo abbandonati.

Al pomeriggio , ore 16 circa, sentimmo battere forte sul portone; forse un prete ortodosso, ci avvertì che sapeva di un movimento di partigiani slavi e albanesi, diretti lì per prenderci la stazione.

Dalla caserma dei poliziotti albanesi, che avevano aderito all’esercito italiano, cominciarono a sparare contro di noi: ci avevano tradito!

Le pallottole fischiando colpivano le mura del nostro fortino.

In fretta riportammo dentro quel tanto che ci fu possibile recuperare e ci chiudemmo all’interno aspettando qualche comunicazione!

Sulle ore 20 cominciò alla spicciolata l’arrivo dei primi partigiani; dopo mezzora il campo davanti a noi era occupato da 150-200 persone, che gridavano: “Italiani siete liberi e salvi, aprite e dateci la stazione, non abbiamo tempo da perdere!”

L’invito era ripetuto all’altoparlante. “Non abbiamo tempo da perdere, esponete bandiera bianca, decidetevi!!!”

All’improvviso, spari da ogni parte. La nostra Compagnia prima di arrivare a Durazzo fu intercettata dai Tedeschi e dovette ritirarsi.

Il comandante, privo di ogni mezzo di comunicazione, pensava di riprendersi la nostra stazione.

Cominciò una battaglia, tutti sparavano : i partigiani contro i nostri che arrivavano e i nostri contro tutti!

Dopo 40 minuti circa finì la battaglia, ci fu silenzio, così sentimmo dei lamenti perché qualcuno era ferito.

Il comandante si affrettò a dire : “presto presto! Caricate tutto sui nostri camion!”

Purtroppo non riuscimmo a completare il carico, perché riprese la battaglia!

Il comandante : “Via Via!! Ritiriamoci sul punto di difesa dell’Adriatico!”

Passammo la notte. Al mattino presto presto udii gridare più volte “ Schiavon,Schiavon partiamo a prendere il resto della stazione”.

Si parte per Alessio , due ore di marcia; avvicinandoci al ponte sul fiume ci accorgemmo che, schierati sull’altra sponda i partigiani non ci avrebbero fatto passare, ed erano pronti a sparare.

Cominciò una nuova battaglia!

Il comandante decise di fare intervenire il Comando sull’Adriatico con i cannoni.

Vedemmo le bombe cadere sul versante del monte di Alessio, ma lontano dal centro del paese.

Dopo i primi colpi l’abitato fu centrato. Apparvero lenzuola bianche.

All’improvviso un razzo colorato apparve in cielo, fu silenzio e attesa.

Un carro armato attraversò il ponte, seguito da una moto carrozzella e da soldati tedeschi. Dalla moto carrozzella scese un ufficiale tedesco, chiese di incontrare i nostri ufficiali. Si appartarono in quattro.

Passati 20 minuti uscì il nostro comandante, ci disse :” Dobbiamo consegnare le armi!”

Gran parte di noi gridò : ”MAI!”

Di nuovo ripresero a confabulare; uscito il comandante disse:” Ci lasciano le armi, ma dobbiamo seguirli con i camion!”.

Ci portarono in un campo a nord del paese, a ridosso di una collina, dove rimanemmo qualche giorno.

Una mattina, con tedeschi armati seguiti da un camion sempre tedesco, in colonna partimmo a piedi.

Ci trovavamo 20 Km da Tirana; passammo attorno alla capitale e salimmo sul Kosovo albanese. Sulla cima ci assalirono i partigiani!.

I tedeschi gridarono :”Italiani allontanatevi e non sparate!, a combattere ci pensiamo noi!.

Io, mi nascosi tra le ruote di un camion. Spararono per una mezzora, poi i partigiani uniti agli albanesi si ritirarono.

Riprendemmo la marcia sempre a piedi, in discesa, verso il lago di Ocrida e un altro laghetto.

Passarono 13 notti, ci fermarono in Macedonia, a Bitola; una cittadina sotto le montagne greche, credo che da qui, nel 1941, il sergente Mario Rigoni Stern partiva a portare cibo e notizie in alto sulle montagne greche in combattimento.

Qui i tedeschi ci chiusero in un campo di concentramento, ben protetto!

Cinque giorni dopo ci trascinarono alla ferrovia e partimmo attraversando una parte della Bulgaria. Dopo tre giorni lentamente arrivammo a Belgrado. L’aria del mattino era fresca e chiara, il sole più che scaldare illuminava. Eravamo in ottobre, a casa mia in Veneto una giornata così la chiamavamo settembrina!

Sul Danubio era già pronta una piccola nave, prima di salire ci dissero che ci avrebbero portato in Italia. La nave correva tranquilla, il Danubio era gonfio e possente, ma non faceva paura! Fra noi italiani non c’era voglia di chiacchiere, i tedeschi ci tenevano d’occhio. Mi ricordo che durante la corsa lenta verso Belgrado, dai campi partivano donne con fagotti e borse, ci offrivano pane e acqua aspettando qualcosa da noi. Ci ricordammo di avere in tasca soldi italiani e albanesi; le vedemmo contente della ricompensa.

Passando sotto i ponti di Budapest notai a sinistra il Castello Reale in cima alla collina e poi a destra sulla sponda del fiume l’edificio del Parlamento. Più avanti passammo sotto Bratislava e mi ricordo di aver visto un castello. Finalmente arrivammo a Vienna; ci spogliarono di tutto e ci rinchiusero in una carrozza blindata sui binari della ferrovia.

Dopo due notti il treno partì e ci scaricarono a Norimberga sui campi della HitlerJunge. Eravamo in migliaia! Ci occuparono a scavare fossi attorno al campo; qui conobbi un padovano (Schiavon Orfeo di Voltabarozzo); assieme portavamo la terra scavata lontano circa duecento metri su un lato del campo. Era un lavoro pesante, continuò per sei giorni.

Apparvero dei tavolini collocati in varie parti del campo. Con altoparlanti invitavano tutti coloro che fossero professionisti o che sapessero lavorare. Io e Orfeo ci dichiarammo elettricisti!

Il giorno dopo ci portarono fuori del campo e ci lasciarono in due stanze con altri che avevano fatto analoga dichiarazione.

Due giorni di riposo e ci trasferirono a Giebelstadt, un paesetto a circa diciotto Km a sud Würzburg.

Ci trovammo in un lager, in una baracca con una cinquantina di italiani di più regioni. Il campo era circondato da una rete alta due metri; in un angolo una torretta con un soldato armato. La sera ci diedero pane e margarina ed anche del caffè.

Al primo mattino ci svegliarono alle sei; in colonna tutti cinquanta accompagnati da due tedeschi armati camminammo per qualche Km e ci fermarono su un lato di un campo d’aviazione di uso civile.

Notammo un po’ lontano sulla destra una caserma d’aviazione ben recintata;fummo distribuiti a gruppi al comando di lavoratori tedeschi; con questi e buoni mezzi di scavo cominciammo a lavorare lungo un lato del campo.

Nel secondo giorno mi assegnarono un lavoro un po’ più lontano dal gruppo e mi trovai con una sentinella che veniva dalla caserma. Era un aviere, ci presentammo semplicemente come due persone qualsiasi.

Lui si chiamava Jacob Schulteis, ingegnere. Era una bella figura di uomo!, sulla quarantina, malato di cuore, per questo non destinato al fronte.

Il giorno dopo Jacob guardingo si avvicinò a me, si guardò attorno, a voce bassa mi disse:” Otello voglio portarti del cibo, ti chiedo da uomo di fede di non farlo sapere a nessuno, io farò altrettanto; possiamo giocarci la vita!”

Mi disse anche che avrebbe depositato il cartoccio con il cibo su un punto del campo lungo la recinzione del territorio della caserma e ci stringemmo la mano come patto.

Io, durante la mezzora del pasto (una ciotola di brodo con ossa di maiale, un pezzo di pane e un quadrettino di margarina), mi scostavo di quel tanto per recuperare pacchetto di Jacob, che ogni giorno mi portava.

Dopo il secondo giorno non lo ebbi più come sentinella, ma ritornai a lavorare al comando di altri tedeschi. Prima di lasciarci mi raccomandò che alla sera, nel ritornare alla baracca, mi fermassi al nostro punto di incontro vicino al recinto del campo di aviazione, perché spesso aveva qualcosa da dirmi o da darmi.

Una sera mi disse: ”Domani ti aspetto non mancare, ho un dono per te!”

Il giorno dopo mi fermai, lui era là, allungò il braccio:” Guarda disse questa è una corona del rosario, sono andato a piedi al Santuario Mariano. per farla benedire, recitalo tutti i giorni!”

Qualche sera di ritorno dal campo di lavoro, in colonna, uno di noi si staccava senza farsi vedere per rubare qualche patata che sapevamo esserci lungo il percorso. La cena della sera: pane scuro, un pezzo di margarina e del miele; qualche volta anche del latte. Avevamo anche la possibilità di avere del carbone e di accendere un fuoco in una stufa, così si poteva cuocere le patate e far bollire il latte.

Parlando tra noi raccogliemmo qualche notizia involontaria dai nostri capigruppo tedeschi; così venimmo a sapere che stavamo costruendo una pista per gli aerei da caccia a reazione tedeschi. La pista doveva essere lunga circa duemila metri e larga più di sessanta.

Lavorammo per sei mesi e la vedemmo finita. Avevamo scaricato migliaia e migliaia di vagoni ferroviari carichi di ghiaia sabbia e cemento! Un lavoro molto pesante!

Al sesto mese io fui colpito dalla malaria; due giorni di febbre altissima ma sempre di lavoro! Fortuna volle che Jacob si fosse accorto che spesso ero disteso per terra. Riuscì a portarmi dal medico della caserma, che mi visitò, mi tolse del sangue dai polpastrelli delle dita e mi diagnosticò la malaria. Disse che dovevo essere allontanato quanto prima!non potevo più lavorare!

Il giorno dopo al lager mi assegnarono una sentinella per portarmi alla stazione; prima di partire Jacob riuscì ad avvicinarsi e mi diede un pacco; mezzora dopo partimmo con la sentinella, un tedesco senza un braccio con a tracolla un fucile.

Due ore di viaggio su un carro trainato da un bue; arrivammo alla stazione ed un treno arrivò pochi minuti dopo; salimmo sulla terza carrozza. Il treno correva verso est. Non ci scambiammo mai una parola! Gli feci capire che dovevo urinare e mi seguì fino al cesso. Il treno aveva fatto due soste, non avevo orologio, fuori era buio ed erano passate più ore, quando il treno si fermò! Mi fece segno di scendere, aprii la porta e mi trovai sul lato opposto al marciapiede. Mi gridò più insulti e mi puntò l’arma, temendo che scappassi; rientrai e scesi con lui.

A passare la notte mi accompagnò al piano terra di una torre. Dentro c’erano tre persone, una donna e due uomini. Una sporcizia e una puzza nauseante! Dei tre due sonnecchiavano, la donna mi sbirciò infastidita. Non c’era spazio per dormire! A guardare quei tre durante la notte, anziché dormire pensavo al mio futuro. Mi sentivo debilitato fisicamente, moralmente e mentalmente! Da tempo non mangiavo, ma non sentivo la fame.

Il mattino presto mi venne a prendere, salimmo in treno e viaggiammo per ore. Finalmente mi fece scendere, non ricordo con chi e con quale mezzo mi portarono a Dachau. Miracolo! Provvidenza! Avevo tra le mani quel pacco di Jacob!

Entrai in campo di concentramento, non ci fu alcun controllo; fui avvicinato da un tedesco e mi portò in una stanza. C’erano due letti a castello, mi abbandonò su quello sotto e sparì. Sopra un italiano sembrò non accorgersi di me. Sul pavimento una ciotola vuota e una bottiglia piena di acqua, avevo sete e ne bevvi una metà. Mi sforzai ad aprire il pacco, dentro tante piastrelle di pane bianco, erano gallette; ne rosicchiai una e bevvi ancora un pò d’acqua. Mi sdraiai e mi addormentai.

Mi svegliò l’italiano,”anche tu qui? Ho visto che hai del pane, anch’io ho fame; qui nessuno mai ci porta da mangiare, c’è acqua nel cesso!” mangiò una galletta e bevve il resto. Ci sdraiammo ambedue per digerire quanto mangiato e bevuto. Ci sentivamo vivi.

Dopo un po’ mi disse:” qui nessuno si occupa di noi, ci sono stati altri malati di malaria, ma sono tutti morti! Questa a quanto si dice sarà la nostra fine!, noi italiani ci lasciano morire di fame! “

Le gallette erano molte, ma non potevamo sapere per quanto tempo saremmo restati lì! Decidemmo di mangiarne una ciascuno al giorno e bere acqua. Spesso si sentivano urla di dolore e forti rumori. Ci accordammo di aiutarci a vicenda. Capitò a tutti e due di cadere svenuti tornando dal cesso!

Il soccorso venne da ambedue; tutti i giorni ci scambiavamo poche parole, pochi pensieri; la preoccupazione era una sola per tutti e due …….

Veramente non ricordo il suo nome, né da dove fosse venuto.

Passò un mese o poco più; entrò una persona, io pensai fosse un medico; chiamò ”Otello vieni!”

Mi portò fuori dal lager; lo seguii come un automa; mi fece salire in auto e partimmo; mi disse solo “ Sei fortunato!”. Due ore di corsa e mi scaricò di fronte ad un cancello, mi salutò, non lo vidi mai più.

Entrai dal cancello; un soldato aprì una grande porta; mi ricordo che dissi “Sono in paradiso!”

Vedevo uomini che camminavano liberi, tanto spazio, osservavo pulizia e buon ordine. Era un campo di concentramento speciale, unico mi dissero! Tanti prigionieri e di tante nazionalità; a poco a poco ebbi più notizie.

C’erano inglesi, francesi, qualche polacco, olandesi, belgi, italiani e qualche americano. Quasi tutte queste persone per tre volte alla settimana ricevevano pacchi dalla Croce Rossa, ma niente mai per gli italiani!

Girava la voce che il Patto Hitler-Mussolini non lo permettesse!

Per mangiare mi occupai a qualche servizio per chi me lo chiedeva, ma lo facevo anche qualche volta spontaneamente.

Mi venne l’idea e il pensiero di aver lasciato Dachau senza salutare l’italiano, mio compagno del letto a castello; devo dire anche che lasciai tutto quanto restava delle gallette.

Trovai anche modo di dormire meglio, perché invitato da un collega di prigionia nella sua baracca. Riuscivo anche a mangiare a sufficienza in quanto ricevevo doni da chi riceveva i pacchi della Croce Rossa.

Tra i prigionieri c’erano persone di buona cultura, di teatro, di musica, qualche cantante, amanti del ballo, gente che voleva divertirsi, e fra questi, numerosi tedeschi che partecipavano con piacere a scenette di teatro o rappresentazioni musicali e di canti; quasi sempre applaudivano.

Si diceva tra noi che questo campo speciale fosse il solo visitato dagli ispettori della Croce Rossa. Questa atmosfera di buona convivenza con i tedeschi durò pochi mesi. Infatti, purtroppo, un soldato venne a chiamarmi e senza alcuna spiegazione mi portò in stazione, salimmo nel primo treno che arrivò e dopo ore di viaggio scesi a Würzburg; una città al centro della Germania. Lo stesso accompagnatore mi portò alla stazione ferroviaria principale della città, mi disse “ Questo sarà il tuo nuovo posto di lavoro”.

Il giorno dopo fui presentato al nuovo capo; un anziano che mi portò a conoscere altri tre lavoratori; un italiano Tinelli di Milano e due francesi di Parigi. Ci consegnò un tester due cacciaviti ed un rotolo di filo elettrico e se necessario avevamo a disposizione chiedendolo qualche altro attrezzo.

Il lavoro consisteva nel riparare o sostituire circuiti elettrici delle locomotive o tender che entravano danneggiate.

Il nostro capo faceva parte delle SS, era abbastanza trattabile, aveva una figlia che Tinelli guardava con simpatia ed era corrisposto.

Cominciammo a mangiare con i tedeschi, che si incolonnavano in punti di distribuzione del rancio; dopo qualche giorno, ci consegnarono un libretto che costituiva un lasciapassare per noi lavoratori e per il rancio.

Würzburg era una bella città, circondata da colline e che, correva voce, non doveva subire bombardamenti, per cui pochi erano i bunker dentro alle colline.

Quasi ogni giorno aerei B52 in numerosa formazione, seguiti da caccia di protezione volavano rasentando la città; questi veivoli da bombardamento partivano dall’Inghilterra, seguivano la linea Renania-Francoforte – Schweinfurt -Duisburg dove c’erano le famose acciaierie tedesche che costruivano armamenti.

Tutti i giorni suonavano allarmi; in caso di maggior pericolo noi lavoratori potevamo scappare sulle colline, dove più volte io mi stendevo con la pancia all’aria e ammiravo, assistendo spesso a combattimenti tra aerei da caccia; mi sorprendeva la velocità ed il guizzo dei caccia tedeschi, che decollavano dalla pista costruita da noi italiani.

Ho visto più volte i B52 sganciare numerose bombe e sentito le deflagrazioni alla periferia della città e oltre.

Una sera successe quello che tutti i cittadini non si aspettavano.

Sulle ore 20 apparvero dei fuochi sulle creste delle colline, distribuite in semicerchio come a voler segnare i confini della città; alle ore 21 circa la città fu illuminata da una quantità di bengala.

Scappai da solo su una collina e mi adagiai su un albero. Sopra lo splendore della città illuminata era buoi nero!

Cominciò la giostra degli aerei da bombardamento, che dal profondo buio piombavano sulla città, sganciando casse, che aprendosi lasciavano cadere centinaia e centinaia di spezzoni incendiari, che si distribuivano, cadendo sui tetti delle case e sul terreno.

Per ogni metro quadrato se ne potevano contare due o tre di questi spezzoni incendiari; vedevo incendi su tutta la città; mi fermai lì tutta la notte sulla collina.

Alle 10 del mattino scendendo incontrai un italiano; eravamo sconvolti, decidemmo di rischiare e di entrare in città.

Suonavano insistenti allarmi; vedemmo distruzione ovunque; le strade colme di macerie, fuoco e fumo uscivano dai vuoti delle cantine con urla atroci.

Accanto ad una fontana asciutta c’era il corpo arrostito di una donna accovacciata.

Passammo sulla strada dove c’era un ponte ferroviario; un grido ripetuto “ Otello, Otello!”

L’italiano che era con me mi disse di scappare “ Cosa hai fatto, ti hanno riconosciuto!”.

Ancora “Otello…..” e vidi un uomo che mi veniva incontro a braccia aperte.

Era l’ingegnere Jacob Schulteis!!!!!!!!!!!

Ci abbracciammo e piangemmo insieme muti; la commozione ci teneva stretti!

Quando ci staccammo Jacob cominciò a parlare, dicendomi :” Otello stai bene? Anch’io sto bene, che gioia! Vado a consegnarmi ai francesi”.

L’addio fu angoscioso; NON CI VEDEMMO MAI PIU’!!

Nei giorni successivi si parlava di 25000 morti; avevano istituito punti di ristoro mobili che coprivano tutta la città; anch’io mi mettevo in colonna e ricevevo il rancio come gli altri.

A Würzburg conobbi una ragazza tedesca che si chiamava Ilse; subito mi mise in guardia dal papà, che odiava i badogliani. Si era accorto che ci parlavamo.

Il tempo passava senza grosse sorprese; io ogni tanto andavo a trovare una bergamasca, che faceva la cuoca e distribuiva rancio ai piedi di una collina.

Arrivò marzo 1945. Ilse mi disse che il fronte degli alleati si avvicinava pericolosamente e che i tedeschi parlavano di lasciare la città.

La domenica successiva, mi disse “Oggi si parte!. Alle ore 21 io sarò nella prima carrozza del treno, ti aspetto!.”

Alle 21 ero con lei nel treno. Era buio, a poco a poco il treno si riempiva solo di tedeschi.

All’improvviso mi accorsi che il papà di Ilse tentava di entrare; non doveva esserci.

Mi gettai dal finestrino e mi stesi sotto il predellino della carrozza, nel buio; passò poco tempo ed il treno cominciò a muoversi e con il treno anche la città si stava evacuando; io ormai in piedi, passata la mezzanotte, entrai in una piazza, dove si trovava un numero imprecisato di prigionieri; eravamo in molti e potevamo dire di essere liberi.

Si cominciò a parlare, “cosa facciamo?,dove possiamo andare?”, i più accettarono di occupare un bunker dentro una collina, forse pensando di tenersi nascosti e di poter dormire. Così feci anch’io!.

Verso le 4 del mattino, un rimbombare di colpi di mitraglia e urla feroci, ci misero in allarme;stavano entrando nel bunker gli uomini delle SS, che ci gridavano di uscire.

Ci ritrovammo nuovamente in piazza; ci volle molto tempo per radunarci tutti; ci dettarono molte condizioni e partimmo, controllati, in colonna.

Era pomeriggio avanzato, ormai, e quasi buio quando uscimmo dalla città; camion carichi di cittadini, automobili, carri armati e blindati si affrettavano per andarsene.

La nostra colonna seguiva un sentiero che confinava con un canalone; qualche bagliore di macchine in ritardo che scappavano, poi il silenzio!

Fra noi italiani, in colonna cominciammo a domandarci cosa si poteva fare; si sentiva qualche grido delle SS che diceva “ Achtung,achtung, Snell, snell”.

Nella colonna iniziarono dei mormorii, forse si era di fronte ad una curva; in cinque italiani decidemmo di scappare.

Scivolammo sul greto del canalone, muti, quatti, quatti,restando lì fermi e nascosti; tutti gli altri si stavano allontanando!

Restammo lì, aspettando il silenzio totale attorno a noi; decidemmo allora di camminare curvi, di buon passo seguendo il canalone; superammo una curva e procedendo ci trovammo tra due pareti, al centro uno stretto camminamento, che andava in salita.

Tastando le pareti al buio, ci sentimmo contenti di trovarle franose; questo ci invitò a scavarci una tana, cercando di mimetizzarne l’entrata con la terra tolta.

Eravamo stanchi e bisognosi di dormire! Quasi uno sull’altro ci addormentammo!

Ci svegliammo a mattino inoltrato; nessun rumore, nessuno che passava.

Il primo giorno vedemmo volare su di noi un piccolo aereo, questo ci preoccupava; alla sera tardi si sentivano spari e scoppi di bombe che volavano sopra di noi.

Tinelli mi disse che oltre la collina c’era un aeroporto; forse le truppe alleate lo stavano bombardando, assicurandosi l’avanzata senza resistenza.

Ritoccammo la tana per renderla un po’ più larga, in modo da dormire più comodi; passò così il primo giorno!

L’indomani, martedì, ci accordammo in modo che a turno, con la massima attenzione, uno doveva uscire a raccogliere quanto della vegetazione esterna, ci poteva essere di nutrimento.

Decidemmo così di rimanere nascosti in attesa dell’armata del generale Patton.

Avevamo saputo tempo prima della battaglia delle Ardenne.

Le cannonate continuavano sopra le nostre teste e gli scoppi erano sempre più numerosi e potenti; questo ci faceva ben sperare!

Nessuno passò mai su questo sentiero; arrivò mercoledì e chi doveva uscire a raccogliere cibo, faticava sempre più a trovare qualcosa di commestibile.

Giovedì il piccolo aereo non si fece vedere; a tarda mattinata apparve un soldato tedesco, con una bicicletta a mano e il fucile a tracolla, faticava a salire. Bruno da Boara Pisani (PD) si offrì per tentare il colpo!

Aspettò il momento opportuno, saltò fuori dalla tana e agganciò il soldato alle spalle. Era un fuggiasco!

Sfinito ci consegnò il fucile; “non fatemi del male, sopra questo sentiero c’è la strada che porta a casa mia!”

“Va in pace e non parlare con nessuno di questo incontro!” gli dicemmo.

Partì piangendo e ci ringraziò.

Il caso aumentò in noi la speranza; eravamo forse alla fine della guerra?

Arrivò venerdì notte; ore cinque, ci svegliammo di soprassalto; sentimmo uno stridore di carri armati, blindati, jeep e un vociare continuo.

Buttammo fuori gli occhi, tante stelle americane che volavano via veloci!

Saltammo fuori gridando,”Siamo italiani,siamo italiani!” battendo le mani, salutando e agitando le braccia.

“OK,OK americani!”

Ci videro, raccolsero il nostro benvenuto e la nostra felicità; ci lanciarono scatolette, coca cola, sigarette e cioccolata; correvano via veloci.

Alle ore sette eravamo rimasti soli; in cerchio ci guardammo ; le domande erano :” Ora cosa facciamo?dove andiamo?”

Io avevo lavorato più mesi a Würzburg, conoscevo qualche persona e qualche luogo; così pensai che forse era meglio andare in città.

Vedemmo un binario della ferrovia e cominciammo a seguirlo in quella direzione. Un’ora e mezza e fummo in stazione.

Al nostro apparire, “Italy? Ok ienn’acca! Americano sogno, from Napoli, come here italians, ok,ok!”

L’americano ci accolse dimenando le braccia e facendoci gesti di benvenuto.

Ci avvicinammo e si formò un gruppo di circa quindici soldati, l’italo-americano lanciò un’idea : “Hanno bisogno di tutto questi, portiamoli là( guardando gli altri commilitoni) dove c’è un vagone letto e tre vagoni sigillati della Croce Rossa!”

Per noi era un’idea meravigliosa!

Attraversammo tutti i binari assieme ad alcuni soldati,”ecco qui c’è da mangiare e da dormire!”; “fate i bravi è tutto a vostra disposizione!”

Non capimmo che autorità avesse il buon napoletano, ma ringraziammo più volte e li salutammo.

Nel vagone letto c’erano stanzine per ognuno di noi, mangiammo quello che ci avevano lanciato in corsa i soldati americani e bevemmo ognuno un po’ di coca cola.

Non osammo aprire subito uno degli altri vagoni, perché avevamo bisogno assoluto di dormire; la notte fu lunga e riposante!

Al mattino tardi la fame e la curiosità ci portarono al primo vagone; lo aprimmo e vedemmo un gran ben di Dio.

Ognuno si prese quel tanto di personale che gli poteva bastare per un buon pasto. Per tutti e cinque cominciò un periodo felice.

Passarono quattro o cinque giorni e assieme a Tinelli uscii per un giro nella città distrutta.

Nel ritorno passammo per via Croce Rossa; al numero 5 vedemmo alla finestra del secondo piano di un palazzo ancora intero, due ragazze che ci guardavano e ci sorridevano.

Il giorno dopo le trovammo fuori casa; Irma e Margot i loro nomi, due belle ragazze, una bionda e una castana. Accettarono di venire nel vagone con noi.

Cinque o sei giorni dopo ognuno aveva conosciuto una ragazza.

Ce la passavamo veramente bene; mangiavamo e dormivamo finalmente a sufficienza; ma a disturbarci arrivarono una mattina tre soldati, un francese Josef e due di colore.

Ci portarono sigarette cioccolata e whisky. Parlammo del più e del meno, senza scoprire segreti e confidenze, ma pacificamente. Tutti avemmo l’impressione che i due di colore fossero alquanto ubriachi.

Improvvisamente Josef ordinò “ Alzatevi e andiamo!” e ci disse che quei due erano al suo comando.

Non li vedemmo più per un po’ di tempo.

Passò invece Josef da solo e ci disse che come Sergente Maggiore aveva il compito di controllare i soldati americani.

Wisburg era conosciuta per il suo vino e qualche volta Josef ce ne portava, passando anche per controllare che non ci fossero quei due.

Purtroppo un giorno successe che arrivarono tutti e due ubriachi! Da giorni entravano da noi donne giovani conoscenti delle nostre amiche; questo via vai fu notato da loro.

Capitò un fatto che non avremmo mai pensato accadesse!

Uno dei due mi prese per il collo e mi scaricò sulla strada; mi mostrò la sua mitraglietta e disse spingendomi “Vai avanti!” anche il secondo mi disse “Cammina! Non fermarti” Entrammo in un cortile di un grande palazzo parzialmente danneggiato.

I due si misero davanti alla scala di entrata. “Sali “ mi dissero”; alla prima porta “ Batti!”; picchiai ma la porta non si aprì.

Uno bussò con la mitraglietta per due volte, attendemmo qualche minuto; sembrava che non ci fosse nessuno. All’improvviso dall’alto della scala cominciò a scendere una massa tumultuosa di persone; tante donne, pochi uomini e qualche bambino: Tutti si raccolsero nel cortile, gridando e urlando.

I due, con tre salti, si posero davanti al gruppo, allungando le braccia e puntando le armi. Io colsi il momento per portarmi sulla strada e fuggire!

Poco lontano mi bloccò Josef; “Otello cosa sta succedendo?” mi tirò con sé davanti ai due soldati; strappò loro le armi dalle mani e diede due sonori ceffoni ad entrambi.

I tedeschi osservavano in silenzio, spaventati.

Cacciò i due; “Quanto prima faremo i conti !” disse ai suoi compagni.

Josef mi chiese di restare lì con lui; chiese a tutti di rientrare in casa e poi assieme cominciammo a passare di porta in porta, accennando qualche spiegazione e chiedendo scusa a tutti per quanto era accaduto!.

Noi rientrammo nel vagone, “State tranquilli!” ci disse Josef, a quei due ci pensava lui e si capiva che era preoccupato! Un breve scambio di saluti e se ne andò.

Noi cinque ormai, avevamo impostato un modo di vivere, vietando a tanti di unirsi a noi!.

Le giornate passavano in compagnia delle amiche. Due volte ci visitò un italiano, chiedendoci se volevamo rientrare in Italia.

Una mattina Irma mi accompagnò all’Ospedale LuipolKrankHaus, su una collina; entrammo assieme; “sono tutti prigionieri politici” disse.

Io vedevo solo uomini che erano stati torturati; avevo sempre temuto una fine simile; mi ricordai allora del Dottore che mi tirò fuori da Dachau; pronunciò una sola parola “ sei fortunato!” E sparì.

Ora vi dò i nomi di noi cinque, che eravamo ancora insieme: Otello da Padova, bruno da Boara Pisani PD, Tinelli da Milano, Alessandro da Verona e Nava da Bergamo.

Tutti decidemmo di restare finchè ci fosse stato cibo a sufficienza.

I tre vagoni contenevano tante altre cose; in Italia ci sarebbero state molto utili.

Una sera apparve sopra di noi un piccolo aereo, che girava e girava, suscitando curiosità da parte nostra.

Per tre giorni abbiamo visto sfilare l’armata corazzata del Generale Patton; abbiamo applaudito e ringraziato uomini e il Generale americano nostro liberatore.

Ho scritto tanto, ma non ho mai parlato della mia famiglia; anche i miei amici non hanno mai parlato delle loro famiglie; le vicende ed il silenzio di notizie da più anni, la impossibilità di comunicare con i nostri carici avevano impedito qualsiasi contatto.

Come ho già detto, tutto andava bene; ma ad un certo punto cominciò a scarseggiare il cibo; eravamo già ai primi di luglio 1945.

Un giorno arrivò un signore italiano della commissione per il trasporto in Italia dei prigionieri, e così decidemmo che sarebbe stato possibile rientrare per il giorno 15-16 luglio.

In tal modo avemmo tempo e modo di farlo sapere alle nostre ragazze; più di una ci manifestò il desiderio di venire in Italia con noi.

Il giorno 15 venne una corriera e tutti e cinque lasciammo Würzburg; ci fermammo poi a Ingolstadt, dove ci fecero entrare tutti nudi in un sotterraneo, e diffusero sopra di noi una polvere gialla che pensammo fosse un disinfettante.

Rimessi i nostri vestiti, riprendemmo la corsa per l’Italia.

Il giorno 17 fummo scaricati a Padova, proprio sul luogo dove oggi c’è il monumento di Garibaldi.

Sentimmo il bisogno di baciare la nostra terra!

Ci fu un momento di trambusto per i saluti e per raccogliere le nostre cose; mi venne incontro un giovane, mi puntò il dito e disse “ Tu sei TEI!”; mi chiamavano così dalle elementari tutti quelli della mia Parrocchia:

Riconobbi in quell’uomo Nini Calore, l’organista di Cristo Re; raccolse qualcosa che non riuscivo a portare e se ne andò in bicicletta dicendo “Vado ad avvertire la tua famiglia!”.

Mi avviai a piedi; arrivai in via Facciolati, imboccai via Bonafede.

Sulla strada, con una carriola, mi veniva incontro mio padre con due fratelli.

Mia madre Emma, più lontana, mi aspettava ferma come incantata! Ero finalmente a casa!!!!!

C’era anche mio padre, che fu fatto prigioniero nella ritirata di Caporetto e fu anche ferito; mancava solo mio fratello Francesco, il maggiore, che dopo due mesi arrivò a casa da Amburgo, dove anche lui era stato prigioniero.

Tante domande, pianti e abbracci e ricominciai a vivere.

PADOVA

23  GIUGNO  1922

12  GIUGNO  2015

Otello Schiavon - In Memoria

GIUSEPPINA BISSARDELLA

MONTAGNANA  28  SETTEMBRE  1929

PADOVA  4  SETTEMBRE  2024

Un tributo alla vita di Giuseppina, moglie di Otello, per ricordare i momenti indimenticabili passati insieme.